Senza aspettative, ma colmi di speranza
Ho partecipato recentemente a un incontro di formazione, organizzato da Apiart Lombardia, dedicato alla capacità negativa dell’arteterapeuta. La relatrice Sara Noli, autrice del libro omonimo, ha saputo dipanare ed esporre con chiarezza ed esaustività esperienze vissute e riflessioni svolte inconsciamente negli anni della mia professione in merito alla necessità che si impone, all’arteterapeuta, di relazionarsi con il vuoto, con l’attesa, con le lunghe tempistiche creative di alcuni utenti. Soprattutto in contesti nei quali fragilità motorie, cognitive, emotive sono più evidenti e strutturali (lavorando con persone con disabilità, con anziani con patologie degenerative, nell’ambito della salute mentale…) può accadere di dover attendere ore e ore per vedere il compimento, a volte irraggiungibile, di qualche elaborato. Stare nel vuoto, nel silenzio creativo è una capacità tanto necessaria quanto complessa per un arteterapeuta. Solo nel vuoto, in uno spazio sufficientemente ampio, in effetti, può nascere, sorgere qualcosa di nuovo, di inedito. Laddove ci sono troppi stimoli, troppe parole, troppa presenza come potrebbe prendere forma la forma di un altro? Trovare il giusto equilibrio tra gli stimoli necessari, i suggerimenti utili, le parole rassicuranti e lo spazio, il silenzio, le distanze giuste è uno dei compiti più complessi e uno dei traguardi mai raggiunti una volta per tutte, per un arteterapeuta. Relazionarci con il vuoto creativo del paziente ci mette di fronte alla nostra stessa capacità di relazionarci con il vuoto, a diversi livelli: innanzi tutto a livello personale. So stare nel silenzio? So stare, io per prima, nel vuoto? O tendo a riempirlo di parole e di azioni, presa dall’ansia di essere utile, di servire a qualcosa, di aiutare? Che eco suscita in me il silenzio creativo del paziente? In secondo luogo costringe a rispondere di questo silenzio al committente. Soprattutto nel caso in cui non lavoro in ambito privato, ma sono parte, seppure piccola, di una rete di sostegno composta da educatori, psicoterapeuti, medici ecc…, saprò “dare senso”, restituire a quella rete il senso di quel vuoto, di quei tempi dilatati, di quelle attese apparentemente infinite? E, se anche saprò farlo, sarò compresa, e quindi ri-scelta per proseguire il mio lavoro? Non è facile fronteggiare questa incertezza quando, da questo, dipende la mia possibilità di sostentamento…
A seguito di quell’interessante incontro ho proseguito il filo della riflessione, dialogando con colleghe e con la mia supervisora, in particolare a partire da una delle citazioni opportunamente offerte in quell’occasione: bisognerebbe entrare in seduta con il paziente, ammonisce Bion, “senza memoria e senza desiderio”. Saper cogliere, quindi, ciò che in quella seduta emerge, dimentichi di ogni eventuale progresso raggiunto fin lì (al quale ci si potrebbe avvinghiare senza immaginare alternative possibili) e privi di aspettative su ulteriori passi avanti. Il campo quindi, in un certo senso, dev’essere sgombro, aperto, vuoto, appunto. Mi sono interrogata, a partire da qui, esattamente sulla differenza tra l’essere, nei confronti dei pazienti, senza aspettative e senza speranze. (Risuonavano in me, a fronte di quelle riflessioni così corrette e condivisibili, le sensazioni che a volte mi trovo a provare di fronte al comprensibile e condivisibile scoraggiamento che percepisco nelle équipe educative con le quali collaboro nell’ambito della Salute… (continua a leggere)Senza aspettative ma colmi di speranza